Cohousing, in Italia sono ancora pochi
Si tratta di appartamenti che condividono spazi comuni, polifunzionali, cucine attrezzate e lavanderia, ma anche il giardino, i servizi di portineria e alle volte persino gli spazi per il wellness.

I co-housing sono ancora pochi in Italia: appena una trentina, localizzati tutti nel nord del Paese. Ma si tratta di un fenomeno che potrebbe crescere aiutando ad affrontare l’invecchiamento della popolazione e il fenomeno della solitudine abitativa. A dirlo è la ricerca ‘Il co-housing in Italia. Un nuovo trend del real estate’ redatta da Gruppo Gabetti, realtà dell’immobiliare, e Homers, che si occupa della progettazione e della realizzazione di co-housing.
“Pensare a un’offerta abitativa rispondente alla domanda di mercato significa prendere in considerazione forme e stili di vita tipici della società contemporanea. Flessibilità, mobilità, frammentazione demografica e invecchiamento sono alcuni dei bisogni a cui la casa dovrebbe rispondere proponendo un modello che garantisca prossimità ai servizi, socialità e cura reciproca”, dichiara Matteo Robiglio, founder di Homers. “L’Italia è un mercato ancora vergine ma in grado di crescere, soprattutto nei gradi centri urbani”, aggiunge Enrico Cestari, direttore Gabetti Home Value. In Danimarca e in Svezia, per esempio, tra l’1 e il 2% della popolazione vive in cohousing. E secondo lo studio se i cohouser italiani diventassero l’1% della popolazione, questo significherebbe ristrutturare più di 130.000 edifici.
A spingere verso questa forma di abitazione ci sarebbe il desiderio di vivere in un vicinato attivo che si dia supporto reciproco. Uno degli ingredienti fondamentali del cohousing è la scelta consapevole di adottare uno stile di vita comunitario per migliorare la propria qualità di vita: comunità intenzionali che condividono spazi e servizi, avviano percorsi di vita collaborativi mantenendo tuttavia ciascuno la propria autonomia e privacy. “Si tratta di luoghi adatti per sostenere le attuali dinamiche demografiche, rappresentando ad esempio una soluzione per la solitudine delle generazioni più anziane, spesso emarginate nell’attuale contesto urbano”, afferma Matteo Robiglio, direttore scientifico della ricerca, founder di Homers, secondo cui il cohousing intergenerazionale potrebbe essere un ulteriore elemento di interesse di business mettendo insieme più fasce di età che, anche se diverse, hanno tante cose in comune.
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